giovedì 28 gennaio 2010

CATARRO DI CAMMELLO

Il catarro è davvero una questione incresciosa.
Ti fa avere quella tosse grassa, che i medici e i farmacisti e tutti chiamano così, grassa, che già di per sé, al solo suono della parola, ti fa venire il voltastomaco, in più ce l'hai proprio tu, quella tosse, grassa, è dentro di te e spurga dalla tua bocca senza che niente glielo possa impedire, facendoti rivoltare le budella, strabuzzare gli occhi, atrofizzare le gambe e non è escluso che da repulsione di tosse grassa, si possa anche morire.
E poi non si può star tranquilli un minuto.
La gente ti repelle, per non dire che ti schifa proprio. Del resto anch'io repello le altrui tossi grasse, me ne guardo bene dall'avvicinarmi a qualcuno affetto da tosse grassa, è nemico dell'umanità e portatore sano di sbobba verdognola di cui è ripieno fino all'orlo come un cazzo di cannolo avariato.
Brrr!
Così capita che nel bel mezzo di una conversazione inizi con il classico ..., quel suono lì, quello della tosse, ora l' onomatopea precisa non mi viene ( tipo ukfù, può essere?), e cmq ci siamo capiti, ne fai uno due, cento e poi plop, ti risale un'incredibile quantità di muco dai bronchi marci e puh, in pratica, scatarri in faccia al tuo ripugnato interlocutore.
La tosse è il più antisociale dei mali.
Altra faccenda aberrante della tosse grassa è lo gnocchio grumoso, gelatinoso nel complesso, arricchito di simpatici filamenti più croccanti qua e là, fantastico per una speciale prima colazione ai 5 cereali di espettorato, che dopo aver tossito ti ritrovi a dover gestire richiamando a te tutte le forze rimaste abili a non farti svenire.
Si, si, proprio quella, la pappa molliccia e tendinosa che or ora ti è zompata in gola, di cui non sai che fare e perciò rimani lì, per qualche eterno terrificante istante, bloccato e inorridito dallo stesso disgusto che provi per te stesso.
Il solo pensiero di liberartene sputando come una fanciulla senegalese ai giardini di piazza Vittorio ti fa sboccare mentre l'unica sconvolgente alternativa è quella di ricacciartelo in gola e sentirlo scivolare viscido lungo le pareti spugnose dello stomaco che davanti a quell'immagine prodotta dal sistema nervoso centrale si paralizza, diventa un tagadà degli anni 80 e ti fa ribaltare in strada tutto quello che hai ingerito dal 1998 a quel momento.
Avrete capito che mi trovo ahimè in questa costernante situazione.
Di produrre scatarro di cammello a iosa di iose al cubo, non potendo fumare né respirare come umana persona, coltivando in seno la convinzione di avere un gatto randagio incastrato nell'esofago, gatto randagio e affetto da cimurro, che non mangia da 35 giorni e non si fa la manicure dal '78.
In più, a vole r essere proprio sinceri, questa tosse grassa detta anche centrale del latte delle mucose, rende come dire, l'alito una 'nticchia pesante, da carogna di ratto rivoltato nello fogne di Bombay, per intenderci;
da mozzarella di bufala putrescente la cui produzione è affidata a prospere pantegane da latte;
da cadavere di piccione sulla Flaminia, prima che diventi un tutt'uno con l'asfalto.
Insomma, ci siamo capiti.

E nessuno vuol più baciarmi.

Sempre vostra

Sfarfatarra...

lunedì 25 gennaio 2010

Goldrake


Qui

Va, distruggi il male e va
Goldrake
Va
Goldrake

Mille armi tu hai,
non arrenderti mai,
perchè il bene tu sei, sei con noi

Vai, contro i mostri lanciati da Vega,
vai, che il tuo cuore nessuno lo piega,
eeehh la razza umana non morirà,
invincibile sei perchè Actarus c'è
che combatte con te dentro te...
Goldrake!

Va, distruggi il male, va
Albarda Spaziale!
va...
Lame Rotanti!
va...
Pioggia di Fuoco!

Mille armi tu hai,
non arrenderti mai,
perchè il bene tu sei, sei con noi

Vai, c'è sul radar la flotta di Vega,
vai, il tuo corpo di acciaio solleva,
eeehh io sto tranquillo se ci sei tu,
io resto quaggiù e tu scatti lassù,
sentinella nel blu, vai lassù...
Goldrake!

Va, distruggi il male, va
Albarda Spaziale!
va...
Lame Rotanti!
va...
Pioggia di Fuoco!

Mille armi tu hai,
non arrenderti mai,
perchè il bene tu sei, sei con noi
Goldrake!

Mille armi tu hai,
non arrenderti mai,
perchè il bene tu sei, sei con noi,
Goldrake!

martedì 19 gennaio 2010

ILLUMINAZIONE


Mi noia tutto, mi succede quando m'abbiocco al pomeriggio.
Ho capito che l'unico obiettivo della mia vita è emanciparmi dalla sveglia alle 7 e un quarto del mattino.
Quei giorni che mi ci devo alzare.
Il martedì e il venerdì.
Del resto non m'iporta nulla.

P.S: A chi ancora non l'abbia fatto, andate a vedere Avatar, esperienza mistica, ovviamente in 3D.
P.P.S: Io l'ho visto il giorno in cui è uscito, alle 15 e 35, primissimo spettacolo, assieme a orde di preadolescenti in quella fascia d'età in cui gli esseri umani puzzano di piedi e di culo. E lo vedrò di nuovo, giovedì, perchè una volta non è abbastanza.

Farfascoglions

giovedì 14 gennaio 2010

LE COSE CHE NON TI HO DETTO

Questo è il decimo giorno.
La vecchia mi ha dato un letto nella stanza a piano terra. E’ una specie di taverna, dove lei cucina e c’è un tavolo di formica rosa con delle sedie, rosa anche loro e i piedi di metallo. E’ un garage, dovrebbe essere un garage, anche se è piastrellato e le mura sono imbiancate, tinta di vecchia data, vecchissima direi, ingiallita dagli aliti del camino d’inverno e dalle zufolate di zuppe ai fagioli e legumi e patate quando piove e va bene mangiare sbobba anche se è appena primavera. La rete è sgangherata e scricchiola da far venire gli incubi eppure di incubi non ne ho. Sto dormendo che è una meraviglia, la sera faccio fatica a prendere sonno così esco a passeggiare nella campagna pesta come un’immensa blatta, ma non ho paura, ho come la sensazione che qui, in questo posto assurdo, del nulla e dei grilli, e dei cani che ringhiano in lontananza e degli alberi che bisbigliano di vento tra le foglie e storie nascoste che mi raccontano in una lingua difficile da decifrare, è come se sapessi nel profondo che nulla qui può accadermi. Poi rientro che ho sudato appena un po’, mi sciacquo il viso e mi corico e senza accorgermene sono già addormentata e la mattina mi raggiunge presto l’odore della moca che sbotta dai fornelli e l’aria fresca dei campi tosati.
Ho avuto voglia di chiamare mio padre. Ho composto il suo numero ed è successo che per la prima volta dopo anni abbia sentito la sua voce ma non lui la mia. Ci ho riprovato in seguito ed è stato lo stesso. C’è qualcosa che non va nel mio cellulare, deve essersi guastato, perché per ben due volte lui ha detto pronto ed è rimasto qualche secondo in silenzio, ho sentito il suo respiro pesante, il rantolo dell’asmatico da nicotina, le 40 sigarette al giorno, ho immaginato il suo dito indice grosso come un salsiccia bavarese, chiazzato di giallo trattenere la cicca contro il medio, che si consuma e la cenere cade mentre è lì, muto e ansioso nel cercare di capire chi c’è dall’altra parte. Dopo poco mette giù. Pensa a uno scherzo, forse, pesa che non voglia parlargli o peggio, che non ne abbia il coraggio. Forse anche lui ha provato a chiamarmi. Forse non mi ha dimenticato del tutto, forse ha provato a chiamarmi ma il mio cellulare non mi ha mai restituito alcuna telefonata.
La mattina la vecchia mi sveglio che è già andata via. Dove vada non ne ho idea. Torna tardi, non è affaticata. A volte torna mentre io sono fuori, per i campi. A volte l’aspetto, seduta su una delle sedie rosa, lei arriva non mi saluta neppure, inizia a cucinare, piatti semplici, veloci, frittate con cipolle, insalata, patate fritte mollicce, salsicce essiccate. Non mangiamo quasi niente, ma mi piace sedere a tavola e mi piace l’odore della tovaglia lisa, un odore di bucato e olio, di cotone sgranato, mi piace la sensazione ruvida del tovagliolo di stoffa contro le labbra e i bicchieri piccoli e bassi, da osteria. Poi lei fuma, la pipa, sulla veranda che assomiglia più a un cortile, un’aia, con i polli che girovagano e i gatti che li ignorano sdraiati al fresco, sotto le stelle e non c’è freddo né caldo. E’ solo pace.
Ogni tanto le butto un occhio contro i piedi. Non ho più avuto allucinazioni e lei non ha più avuto zampe di gallina.
Non faccio un granché in questo posto. Non c’è niente, televisore, radio, giornali. Niente. Mi sveglio per l’odore di caffé che intasa la stanza tutta intera di vapori saporiti. Giro la manopola del gas, osservo per un poco l’ultimo zampillo intermittente e marroncino, poi non lo verso neppure, il caffé. Non ne bevo. Non ne ho bisogno, sono già bella che sveglia e ho voglia di uscire. Attorno è solo campagna, piatta, di terricci secchi e zolle crepate di erba ingiallita e piante di fico. I fichi non sono maturi, ma ci sono già, sono lì, piccoli, neonati, con le foglie di fico mi ci pulisco il culo.
Non c’è carta igienica nella casa della vecchia, non c’è niente che le assomigli, alla carta, niente riviste, neanche la plastica, solo ferro e alluminio e rame. Molto metallo e zero cellulosa. La doccia non esiste, un tubo di gomma fa le sue veci, neppure una vasca e niente acqua calda. Ma non provo fastidio, non provo niente, mi sciacquo in abbondanza, per lunghe mezz’ore, nell’aia, nuda. Tanto non c’è nessuno. Non uso neanche il sapone, non c’è e non ho idea di dove mi trovi, nonostante sia arrivata a piedi, dalla stazione.
Quando ho deciso di seguirla, non è stato perché l’abbia propriamente deciso. Non so perché l’abbia seguita, lei mia ha detto, aiutami con la sacca, vieni a casa mia ti faccio assaggiare una cosa buona. La cosa buona era una minestra di legumi. Era buona davvero, dall’odore, ma poi non l’abbiamo mangiata. Siamo arrivate a casa passando attraverso i campi, lasciandoci la strada statale alle spalle. Abbiamo saltato fossi, percorso vie sterrate, svoltato a destra e a sinistra e non saprei dire, effettivamente, in che punto preciso mi trovi e la cosa non mi preoccupa. Stranamente sto una meraviglia. La mattina dopo la sveglia mi butto sotto il tubo, sto lì a lungo, sotto il getto di acqua corrente, me lo piazzo sulla fronte, ho l’impressioni che mi porti via, quel getto, che possa sciogliermi assieme all’umido del sudore della notte prima, che mi disgreghi immersa nelle molecole di idrogeno, viaggio assieme all’idrogeno disciolto nell’acqua. E’ una bella sensazione.
Poi prendo a camminare.
Con i vestiti attaccati alla pelle, ché neppure mi asciugo, prendo il sentiero alla destra della casa e vado dritto, attraverso ponti e stalle, e sempre campi coltivati a nulla e alberi di fico e rovi di bacche velenose e catapecchie abbandonate, vecchie costruzioni per la rimessa dei contadini, che poggiano lì gli arnesi e le merende, il pranzo nei piatti di ceramica o terracotta, strofinacci impregnati di lardo che cola dalle stoviglie, dal cibo grumoso e farinaceo della pellagra.
Arrivo in punto in cui i campi sono delimitati da grosse mura di cinta e da cipressi. E’ un cimitero, c’è un cancello bello imponente, nessuno ci entra e nessuno esce. Allora mi sdraio, sull’erba che in questo pezzo di terra è rigogliosa e aspetto. Un parente, un prossimo, un devoto, qualcuno dovrà primo o poi far visita ai propri estinti. E invece nessuno. Nessuno entra e nessuno esce.
Ora attraverso il cancello, penso ogni volta, ma poi mi manca il coraggio. E’ così diverso dal cimitero cittadino, dal Verano. Ma qualcosa mi attrae. C’è qualcosa lì dentro che mi tira prendendomi per le dita dei piedi e delle mani, come un formicolio, una scossa leggera, una calamita attratta da un magnetismo tenue. Devo entrare, e oggi lo farò.
Il giorno che l’ho incontrata sul treno, la vecchia ha detto che era giusto rimanere lì, che mi sarei fermata il tempo necessario. Io credo che sia andata, nel senso di lucidità, di alzhaimer o cose di questo tipo eppure mi dà coraggio, mi ispira fiducia, questo posto, la sua casa, le sue mani callose, il suo silenzio, mi danno una tranquillità mai vissuta prima.
Forse sono preda di una di quelle suggestioni new age, la natura, la campagna, le robe essenziali, il contatto primordiale con il mondo, l’esperienza selvaggia che ci ricollega alle nostre origini di mammiferi perduti, di sensi allertati, di ritmi biologici, circadiani, circolari, ciclici, come quelli della terra, del raccolto, delle stagioni, della fecondità, della riproduzione, della luna, della vita e della morte.
Ieri ho avuto un rapporto sessuale con uno sconosciuto.
Ero dirimpetto al cimitero di campagna, sdraiata sull’erba al sole di mezzogiorno. C‘era un caldo inimmaginabile, ma non soffrivo, o non me ne sono accorta. Ero assorta, ero decisa a entrare, di una decisione ponderata, di quelle che lasciano ampio spazio al ragionamento, al soppesamento clinico di tutti i pro e i contro, all’autoanalisi del perché si e del come mai no. Il mettere entrambe le pulsioni sul piatto della bilancia, scandagliare le motivazione dell’attrazione verso la sepoltura e dell’antitetica ritrosia. Mia madre è morta suicida, ho sempre coltivato un interesse emotivo profondo per le urne dal momento che l’unica immagine vivida del volto di mia madre è quella della foto mortuaria impressa sulla lapide.
E’ una foto bellissima. Somiglia a Audrey Hepburn, capelli raccolti, occhi giganteschi, faccia spigolosa.
Bella.
Sin da piccola sono stata una frequentatrice assidua di cimiteri. Del cimitero. Lei era lì e in quel luogo bisognava andare se la si voleva vedere. E per lunghi periodi della mia vita ho creduto di vederla sul serio. Di parlarci sedute comode sul marmo di Giuseppe Pontecorvo o Federica Nizza, di Giammateo Silva e Blasco Della rovere. Erano defunti attigui alla sua tomba, lì chicchieravamo per lunghe ore, lei mi dava consigli sul maquillage e lo studio e io le raccontavo delle mie prime mestruazioni. Poi ho smesso perché mio padre aveva deciso di portarmi in analisi.
Da allora, da quelle giornate piovose di ottobre e novembre, di quando avevo 12 anni, non l’ho più vista, dal vivo intendo, dal vivo-morto, da allora al cimitero potei recarmici solo se accompagnata e dev’essere che mia madre non ha gradito, perché da quel momento, non ha più voluto né vedermi né chiacchierare.
Ed ero lì, sdraiata immersa nei miei dubbi sul da farsi, sull’andare oltre il cancello oppure no, che a un certo punto il sole mi si adombra sulla faccia, come una nuvola di imponenti dimensioni, come una tenda pesante sul bagnasciuga, come un paio di occhiali Gucci, di quelli scuri e spessi da funerale. Davanti avevo quell’uomo, quello con cui ho copulato, grosso nelle dimensioni, alto, molto alto e forte. Uno di quelli accanto ai quali ti senti una bambina, uno di quelli che se volessero ti prenderebbero sul palmo di una mano e ti porterebbero via. Tipo ratto delle sabine, contro cui non puoi niente e non potresti, nemmeno a volerlo e perciò non ti metti d’impegno, perché tanto lo sai, che sarebbe inutile e molto stancante.
Allora ho aperto gli occhi e invece del temporale ho visto lui, con quella faccia strana, ma di uno strano familiare, come se lo conoscessi da sempre. Aveva indosso una maglietta stropicciata e dei pantaloni corti, era scalzo e la sua faccia era fatta di soli occhi e barba, una barba rigogliosa come una foresta pluviale, estesa non in lunghezza, ma larga e rossiccia.
Occhi veramente grandi. Una malformazione forse. Occhi giganteschi, scuri, con lunghe ciglia arrotolate. Che strano essere.
Si è steso accanto a me senza dire nulla. Siamo rimasti così per un po’, entrambi supini, a pancia al sole, con i raggi gialli a picco sulla faccia, con l’odore di fieno nelle narici e l’erba schiacciata contro la schiena. Poi mi sono voltata di fianco e lui era lì, pesante, con quei suoi grandi occhi chiusi e un respiro regolare pesante che sembrava dormire. L’ho osservato per un po’ poi ho chiesto chi sei e lui lo stesso chi sei.
Nessuno di noi ha risposto, avrei voluto dire, l’ho chiesto prima io, ma poi non ce ne è stato il tempo perché lui mi messo una mano pesante sulla bocca e poi mi ha spinto un dito ruvido tra le labbra e io ho iniziato a succhiare, succhiargli il dito come fosse una tettarella, prima modestamente, poi con maggiore avidità,. Aveva un sapore non so, un misto di arancia matura e legno umido, e dev’essere che questa cosa l’ha eccitato perché per un po’ è come rimasto così, di sasso, inebetito e poi mi è venuto addosso con tutta quella sua mole di uomo enorme e mi è sembrato di soffocare per un momento, di soffocare piacevolmente mentre mi stropicciava il viso e cospargeva della mia stessa saliva dappertutto, sugli occhi, nelle orecchie, tra i capelli.
Allora ho cercato di liberarmi dalla morsa di quelle mani ruvide, le ho scansate dal viso con il risultato di sentirmele dritte sui fianchi e contro il petto, sotto la gonna, dentro le mutande. E lo stesso dito all’arancia di legno poi l’ho sentito penetrarmi tra le cosce e ci stava bene, devo dire, senza fatica ha fatto su e giù per un po’, poi è riemerso lasciando il posto a qualcosa di più efficace e appropriato e allora siamo stati lì, per un bel po’, muovendoci in sincrono, con l’erba nelle orecchie schiacciata sulle guance e quella sensazione di caldo che ti viene da dentro quando fai sesso. In un minuto ero nuda, dalla testa ai piedi, lui no. Ed è stato bello essere nuda con la pelle sulla terra, contro l’erba che schiacciata emana fresco, un fresco profumato, di fragranza di vita che muore sotto i colpi del tuo personale, personalissimo godimento. Poi ho avuto un orgasmo, di quelli viscerali che se ne hanno pochi nella vita, io pochissimi, io praticamente nessuno, a parte questo. Ti senti come se una bomba all’idrogeno stia deflagrando dal di dentro, un esplosione che parte non dalla figa, ma dal cuore per irradiarsi a tutto il corpo, le zone periferiche, gli organi interni, le unghie dei piedi, i peli delle braccia e delle gambe e anche l’ultimo insulso capello della tua folta chioma capisce, sa, è consapevole di essere vivo.
Una sensazione struggente.
Quell’uomo, quell’enorme essere umano che mi ha fatto questo regalo è andato via senza che me ne accorgessi tanto ero assorta nel gustarmi un tale piacere. So solo che dopo, quando ho avuto voglia di riaprire gli occhi, lui non c’era più e io ero nuda, ancora sotto il sole, sciolta tra i vapori del mio corpo e quelli della terra che mi aveva fatto da guscio.
E le vene aperte, con il sangue che scorre a fiotte come nel letto di un fiume che abbia triplicato la propria gittata e una sensazione di completezza che mai avevo provato prima.
Quando sono rientrata ho provato a raccontare alla vecchia dell’uomo enorme e della scopata magistrale, ma non ce n’è stato il tempo. Lei era assorta nell’aia e fumava la pipa.
Mi ha detto, devi andare. Come? ho risposto. Devi andare, ha ripetuto lei, devi andare via, ora basta, non puoi più stare qua.
E allora mi sono sentita morire.

lunedì 11 gennaio 2010

LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH'ENTRATE


WELCOME TO ITALY

E come dice un famoso spot: perchè la Calabria è cultura..

mercoledì 6 gennaio 2010

LA BEFANA

Mo mettetevi comodi.
Allora, ( la tastiera l'ho cambiata) ieri parto da Roma per andare in quel di casa della famiglia d'origine. Vado alla stazione termini e salgo su un treno regionale, regionalissimo, di quelli talmente regionali che ti fa tutte le fermate pare pare a quelle di un autobus. Cmq, il treno sarebbe dovuto partite alle 15 e 20, ora del ladrone. Com'è come non è, alle 15 e 15 già sono bella che inchiovata al mio posto vicino al finestrino su di un sedile carico carico di sgommate di schifio e scritte di adolescenti imminchioniti del tipo betty&titty+lally&feffy=tvtttbb-x**à_***:-)))*Iloveyouforever; tengo underworld tra le mani, è la quinta volta che lo inizio e giuro, seguirà una sesta.
A un certo punto arriva uno mezzo sgarrupato e mezzo dipendente di trenitalia che dice che boh, il treno è svampato, perciò, ciccia.
Azz, manco è partito che già ha fatto la fuffa, perfetto.
Scendiamo tipo evacuazione, di quelle intestinali.
La gente impreca, sbuffa, protesta, si impila e se ne va a ciondolare in attesa del prossimo treno sano.
Nel frattempo io faccio tutti i miei cazzo di giretti per i negozi, uh i saldi, guarda lì, guarda là, alla fine da che dovevo essere già arrivata a destinazione, mi ritrovo ancora al punto di partenza con molti soldi in meno e il treno quell'altro, quello senza guasti che sta per partire.
Wabbò, che fai? ti metti a correre.
Corro corro corro corro come un'ossessa, corro come mai avrei creduto di poter fare. Corro che la gente a cui passo accanto si stravvita alla velocità della luce e si ritrova piantata nel cemento.
Devo raggiungere il binario 27, il binario 27 si trova in culonia, praticamente alla fine della stazione, praticamente a porta maggiore, paticamente vicino casa mia che se lo sapevo prima lanciavo i bagagli dalla finestra e poi salivo con calma.
Senza fiato e senza più speranze alla fine riesco a raggiungere il binario e a un minuto uno dalla partenza, imbocco il treno. Sono salva.
Grondo, tipo grondaia. Evaporo. Svampo. Trovo un posto a sedere, mi accomodo, inizio a spogliarmi, strato per strato. Poi per puro caso presto attenzione allo spiker , ma quando mi accorgo che sta dicendo cose spiacevolmente preoccupanti, ovviamente è troppo tardi: Orbetello, Montalto di Castro, Pisa.
PISA.
Sono su un treno per PISA.
Interessante, il problema però, (una quisquiglia, che vuoi che sia) è che dovrei andare a sud.
Mi impanico, schizzo dal sedile, soffro interiormente, soffro esteriormente. Soffro e basta. Nel corridoio io e una darkettona di categoria Z abbiamo sbagliato treno e aspettiamo con grande cordoglio la prossima fermata.
Scendo e prendo un treno al contrario.
E' passata più di un'ora e sono ancora lì, in quell'assurdo incementante punto di partenza.
E, nel culo della coda della fine dell'ultimo binario della stazione Termini. Lo stesso binario 27. Fatti tutta la corsa al contrario, i 600 metri che hai corso prima, dal primo all'ultimo, quando sfrecciavi come una demente per andare a prendere un treno sbagliato, quelli là, si, quelli, rifattili tutti, al contrario, per riuscire a beccare una coincidenza che parte tra due minuti e che praticamente è già partita.
Tutto questo per dire che: maledetta befana, se te pijo te sdrumo...
P.S alla stazione d'arrivo, poi, come se non bastasse, invece di entrare nella macchina di particella di sodio che era venuta gentilmente a prendermi, che faccio? non entro nella macchina di due vecchi parcheggiati in doppia fila? apro lo sportello e chi mi trovo? una vecchia che caccia un urlo che manco avesse visto lo yeti e a momenti mi ci siedo addosso.
Roba da matti...

Farfa kill la befana

sabato 2 gennaio 2010

2010 ANNO DELL'ABBACCHIO


Sono molto preoccupata perché la mia tastiera ha deciso che il tasto della virgola e del punto e virgola doveva svampare e ora se ne sta lì morto e improduttivo e io non me ne faccio una ragione. Io amo le virgole virgola un po' meno i punti e virgola. Con le virgole si creano fantastiche pause ad effetto virgola si cadenza il ritmo della propria scrittura virgola ci si costruisce uno stile virgola personale virgola un marchio di fabbrica virgola quello per cui la gente che legge dice: questa è roba scritta da quella lì virgola perciò ora mi sento spacciata e di scrivere un post sul nuovo anno me ne frega niente.
Ho passato il capodanno in casa virgola il solito festeggione di fine anno virgola cena virgola vino virgola carte e l'incendio di bigliettini del desiderio.
Non serve a niente virgola cioè serve solo se ci credi veramente virgola non come babbo natale virgola la befana e una vera opposizione. Tu scrivi quello che vorresti dalla vita virgola senza esagerare virgola solo cose plausibile. Niente fine del governo di centrodestra per intenderci virgola quello si sa virgola il regno dura finché è in vita l'ultimo imperatore a meno che non ci si aspetti che torni un certo Riccardo cuor di leone che con l'aiuto di Robin Hood e fra Tac faccia un bel ribaltone. Ma la vedo remota. Riccardo cuor di leone non ha la faccia di Bersani e neanche ci somiglia. Una sottospecie di Riccardo nostrano virgola una imitazione cinese virgola ce l'avevamo virgola ma ce lo siamo perso virgola è slittato per l'appunto in Cina a fare l'opinionista in TV.
Insomma il bigliettino virgola lo compili con i tuoi desideri di una vita impilati uno dietro l'altro virgola numerati in ordine di importanza virgola lo appallottoli e gli dai fuoco sul balconcino mentre la mezzanotte si appropinqua e i botti dei romani trivellano il cielo sciatto e piovoso del Pigneto.
Poi aspetti.
C'è tempo un anno virgola fino a dicembre prossimo.
Per strada mi è capitato di sentire una tipa che augurava a un'altra tante cose.
Tante cose eh! si si grazie virgola tante tante cose anche a te.
Mi è venuta l'ansia. Se qualcuno mi augurasse tante cose lo manderei a cagare. Tante cose tipo? allora mi immagino di tutto: multe virgola scatoloni virgola piatti virgola penne virgola. Cose. Cose virgola tante tante cose sommersi dalle cose che non ci si può più salvare. Cose dappertutto virgola cose ovunque virgola in cucina nel bagno per strada nella borsa tra i capelli nelle mutande sotto le lenzuola nelle scarpe cose cose cose. Le cose sono generiche virgola le cose possono essere di tutto.
Io non voglio tante cose virgola ne voglio poche ma buone.
Meglio a voi che a me.
Tante cose a tutti.
Buon anno.