domenica 22 agosto 2010

LA PROVINCIA AVVILENTE

Passiamo tutta la vita a leggere idee grandiose, scrittori illustri, storie eccezionali.

Ci illudiamo di essere cresciuti.
Ci guardiamo indietro e pensiamo a come eravamo da piccoli, al liceo, in quel piccolo mostruoso posto di provincia e tiriamo un sospiro di sollievo perché abbiamo chiara la sensazione di essercela cavata.
Di avercela fatta a scappare, a salvarci.

E' chiaro a molti che non sono nata a Roma, ma in un piccolo paese inculato nella provincia remota al centro del Lazio, dove piove sempre e fa freddo e ci sono le montagne ma non troppo vicine da potersene almeno beare.

In cui le persone hanno teste concave e vuote o piene di cazzate.
Che poi è uguale.
In cui sei, esisti in relazione alla tua famiglia d'origine, il metro di misura è tuo padre e quel che fa, tua madre e quali circoli frequenta, tuo nonno, se da lui ha avuto inizio la tua fortuna. La tua casa, quante stanze ha, se ha la piscina, la donna delle pulizie, se è romena o figlia di ex contadini delle campagne, l'auto, quante ne hai, se c'è quella del papà, quella grossa e quella della mamma, quella più piccola, la city car, per fare la spesa e andare in chiesa e far visita alle amiche o andare dal parrucchiere tutte le settimane a farsi fare la tinta dello stesso colore di tutte le donne del posto e la messa in piega dello stesso verso di tutte le donne del posto.

Il primo giorno di scuola, al ginnasio, il professore di lettere ci mise a giro e a ognuno di noi, adolescenti puzzoni e intimoriti, chiese: che lavoro fa tuo padre? e tua madre?
E io, come tutti, risposi e non mi sembrò allora tanto strano come mi pare adesso. In fondo mio padre non è mai stato un mafioso né mia madre una zoccola, perciò non avevo niente di cui vergognarmi. Ero piccola e troppo poco incazzata ancora per poter dire a quell'uomo, insegnante di latino e di greco, ( per carità, gran brava persona e bravo insegnante): ma che cazzo di domanda è? ma che cazzo te ne fotte? e soprattutto: ma che cazzo c'entra questo con Cicerone e con Senofonte e vaffanculo, io mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

E in questo liceo c'erano figli di chirurghi e di cardiologi, figli di industriali ammanicati e pregiudicati, figli di notai, di banchieri, di, non so, robe così, da corporazioni delle arti e dei mestieri del XII secolo, e così è tutt'ora, e come nel medioevo quei figli liceali, ingessati a ricoprire un ruolo immobilista, avrebbero, con i loro studi futuri, tutelato le attività degli appartenenti ad una stessa casta professionale.
Via, sparati a prendere la laurea, col guinzaglio corto, recuperato non appena fosse giunto il momento, messi nell'aziendina di papà, nella clinica di papà, nello studio di papà, a vivere la vita che ha vissuto papà pronti a produrre figli che vivranno la stessa vita di tutti i loro padri, pronti a sposare la fidanzatina vergine del liceo, vestita sobria, la tendenza è il nero, con le sue scarpe griffate ma sobrie, le sue gonnelle da 500 euro che il mio sarto romeno te le fa uguali a 30, i capelli ben pettinati e scuri, che man mano che passano gli anni si accorciano e prendono quella piega oscena delle loro madri . E lo stesso colore tendente al castano chiaro, in alcuni casi biondo opaco ed è ovvio, perché il parrucchiere è lo stesso e anche lui rimarrà lì, come una colonna dorica, secula seculorum, tramandando ai figli e ai figli dei figli che avranno studiato moda e design a Milano, l'arte della messa in piega.
E i pargoli, con nomi strani, quei nomi che i provinciali danno ai nuovi nati o ai cani, perché pare figo, è un tratto distintivo, quasi a dire: io sto vivendo la vita di mio padre che è stata quella di mio nonno, ma mio figlio, cazzo, lui si chiama Falco o Iceberg o Lux!

E le mogli che si fanno il segno della croce a Natale nella cattedrale dove confessano peccati a metà e sfoggiano abiti comprati apposta, l'abito della festa e anche se tutto ciò fa molto sabato del villaggio, loro si sentono bene lo stesso, nutrendosi di pettegolezzi e malignità e di ipocrisia che fa sempre buona creanza.

E poi, corna a non finire.

Tutto questo per dire che le società chiuse sono il male del mondo, che l'Italia è un posto orribile in cui lo status quo si perpetua da sempre perché non esiste un'alternativa, in cui vincerà sempre la destra o se vogliamo, la destra di Berlusconi, e anche se la città ti dà l'impressione di avercela fatta, di poter respirare finalmente, anche se sembra toglierti di dosso la sensazione d'asfissia a cui la provincia ti ha costretto fino ai 18 anni, è pura illusione. Ottica, acustica, ideologica. E se davvero Bersani verrà a fare la sua campagna porta a porta, giuro che lo spetto a braccia aperte e con una mazza da baseball in mano.