martedì 10 luglio 2007

Diventerà un corto

Un poco di pazienza e un'attenta lettura è ciò che vi chiedo, oltre a...

Questo racconto ( che ho scritto un anno fa) può essere che diventi un corto, serve una sceneggiatura ( che forse farà particella di sodio) degli attori, uno e due ( maschio e femmina), ma potrebbe bastarne anche uno solo, una colonna sonora, una location e suggerimenti, tanti...è benvenuto chiunque voglia partecipare, anche concretamente ( e gratuitamente).

se viene una bella robina la mandiamo in ogni dove

( Roma-Venezia-Locarno-Taormina-Torino ecc..)

Io faccio la regia e ora che imparo ad usare premiere anche il montaggio, ovviamente chiunque voglia partecipare anche alla regia e al montaggio è ben accetto.



L’ULTIMO CAFFE’E'ULTIMO CAFFé

Seccato? Beh un poco, si, diavolo un poco seccato lo sono.

Ora vi spiego perchè


Mi sveglio alle sei e trenta, PM come direbbero gli inglesi. E non è che a quell’ora suoni propriamente la sveglia.

Comunque apro gli occhi. Mi giro un po’ nel letto, le lenzuola sanno di frutta, avariata. Sul cuscino lo stampo dei miei incubi, un alone umido e spesso come una doppia federa.

Non è colpa mia, mi hanno staccato l’elettricità, da quattro giorni il mio corpo sperimenta tecniche igieniche da cane randagio.

Nora no, lei si lava nonostante il freddo, lei profuma ancora di sapone di Marsiglia, quello che ha rubato nella casa in cui ogni giorno fa la sguattera, mentre la nostra è in totale disfacimento.

Nora non c’è, è già andata via, sul comodino i segni del suo passaggio e della sua dipartita: una tazza senza manico, una tazza rotta di caffè freddo e rappreso.

Dunque buongiorno, giorno di merda.

Lancio al largo il doppio strato di lana marrone che la notte ci tiene sospesi tra il sonno e il soffocamento, ma è sempre meglio che morire assiderati. Non abbiamo il riscaldamento, ma non perché ci abbiano staccato pure il gas, no, quello c’è, è l’ultimo flebile segno di civiltà che ci distingue dalle bestie, è che non abbiamo il riscaldamento e punto, non lo abbiamo mai avuto..

Però, dicevo, il gas c'è, non so fino a quando, ma per ora c'è.. siamo due creature OGM, io e Nora, in procinto di subire un brusco e inevitabile processo di involuzione genetica. E sociale. Siamo due creature finite per sbaglio in questa palude italiana che ci risputa con il contagocce, una nicchia che non ci vuole, che da uomini ci ha trasformato in cani, che dalla casa ci butterà in strada. Dalle coperte ai cartoni il passo è breve e meno male che il bambino ce lo hanno già portato via, altrimenti.. almeno così ancora ancora riesco a bere una birra e seguire i programmi televisivi dalle mura dell’appartamento accanto.

Il vecchio vicino è sordo e questo è un bel punto a mio favore. Metto i piedi a terra, ad accoglierli non un tappeto di ghirlande, ma un posacenere colmo. Lo rovescio inevitabilmente e mi imbratto di cenere e odore rancido. Faccio qualche passo nella stanza, fa un freddo boia. Dalla bocca un fumo di gelo mi circonda la faccia, fosse nicotina! Macchè. Raccolgo i mozziconi e mi rullo una sigaretta con gli avanzi del giorno prima. Un giorno si e uno no mi tocca scendere all’angolo della strada e chiedere una sigaretta ai passanti. In genere in due ore riesco a riempire un pacchetto così poi posso tornarmene a casa e ascoltare la tv aspettando Nora che un quarto alle dieci fa girare la chiave e compare dall’uscio con buone notizie nella borsa, un pacco di caffè iniziato, un salame a metà, qualche avanzo di polpettone o una ricottine appena scaduta un pacco di farina con le farfalle, poi lei ci fa il pane che è buono comunque, nonostante le farfalle. A volte mi porta un sigaro, quando il ciccione per cui cucina e lava gliene offre uno per tuo marito le dice e mi sembra di vederlo, sazio e lucido in viso mentre trasborda dalla forma di culo che ha assunto la sua poltrona in pelle, fare una smorfia tonda e dare in pasto ai ratti l’ultimo pezzo di formaggio.

Vado in cucina, c’è un gran casino e un tanfo dolciastro di organico in decomposizione tra i piatti accatastati e le pentole senza manici e gli aloni sui bicchieri. Nessuno fa più le pulizie. Nora dice che spetterebbe a me, visto che lei non fa altro tutto il giorno, ma ormai ha smesso di protestare. Scarico il caffè direttamente nel lavandino, il liquido fa un giro strano in questo emisfero inzuppandosi nei resti del pane raffermo e nelle bucce di un frutto dalla difficile identificazione, forse un arancia. Odio il caffè freddo, ma lei si ostina a portarmelo, nero veleno e amaro per giunta, perché fa economia sullo zucchero, ma io so dove lo tiene, ho scoperto un nascondiglio segreto, in un buco nel fondo della credenza.

Ingenua.

Preparo la moca. L’acqua scorre gelida, pungente, faccio tutto con la punta dell’indice, sto attento a evitare gli schizzi.

Fumo l’avanzo di sigaretta e mastico l’avanzo della cena, una specie di pappone rotondo, lo guardo, ieri sera non faceva così schifo, dev’essere una patata reinventata, con pane e ... pane.

Nell’attesa del caffè mi siedo sulla sedia a sdraio senza braccioli. Ascolto il tg della sera oltre la parete. Un autobotte si è rovesciata sull’autostrada causando disagi alla circolazione, un uomo è stato denunciato per maltrattamento d’animali, teneva il suo cane sul balcone al freddo e per questo è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione.

Pover’uomo!

Mi accarezzo il viso e scopro con enorme sorpresa di essere ricoperto da una manto ruvido e confuso di peli, vado ancora su con il palmo e sento che la maschera mi tappezza il viso per intero fin sotto gli occhi.

Devo avere l’aspetto di uno yeti, un essere disgustoso, inselvatichito con addosso l’odore delle bestie e il prurito delle infezioni.

Mi gratto il culo.

Dev’essere per questo che Nora si rifiuta di scopare. Mi guardo allo specchio e quello che vedo mi lascia interdetto e eccitato allo steso tempo. Stento a riconoscermi. Lo stato d’abbandono in cui perverso da quanto non saprei più dirlo mi ha trasformato in qualcosa di inconsueto, dalla estraneità esaltante. La miseria mi ha dotato di un'altra identità. Sono rinato sotto il segno di una nuova epoca, una nuova condizione, quella in cui non ci sono più regole né obblighi né direzioni prestabilite né patti tacitamente costituiti né etiche di nessun genere. Mi piace, c’è una certa soddisfazione malsana e crudele nel lasciarsi andare, nell’abbandonarsi completamente al crack delle cose.

Lancio un urlo propiziatorio. Posso farlo, posso gridare finché voglio e annaspare nella mia sporcizia fin tanto che i vermi non mi avranno mangiato a cominciare dalle viscere. C’è qualcosa di estremamente anarcoide nel modo in cui le cose cominciano a dispiegarsi ai miei occhi.

Sono fiero di questa libertà belluina.

Potrei vivere ciò che mi resta sputando dove voglio e struprare donne sole e andare dal vicino, torcergli il collo e occupare il suo appartamento, mangiare dal suo frigorifero e riscaldarmi col tepore dei suoi termosifoni. E non sarebbe male. Non ho niente da perdere

La moca borbotta, è pronto il caffè. La tiro via dai fornelli e la lascio per un istante crogiolare nel suo brodo. Mi piace il sapore del caffè inzuppato degli odori dei quarantamila caffè precedenti. Intanto frugo nel buco e recupero la mia porca dose di zucchero. Sono le sette, Nora starà preparando la cena per il ciccione. Mi siedo di nuovo e immagino pregustando sapori che non mi spettano e odorando nebbie di ragù e soffiate di creme al tartufo. Sento lo scoppiettio dell’ animale che crogiola nelle fauci del forno elettrico, è coniglio, no, è lepre, una bella cena a base di cacciagione, nell’intera stanza esalazioni di essenza di rosmarino e salvia, le finestre blindate appannate dolcemente dal colore ocra della care abbrustolita.

Prima di prender sonno ieri notte pensavo alla possibilità di cacciare quanto più grasso possibile dall’incauto ciccione. Nora è contraria al trafugamento di beni di valore dalla casa di lui, è già tanto che abbia acconsentito a furtare qualcosa dalla sua dispensa. Ma da ieri mi gira nel cervello un tarlo prepotente : e se provasse a ciucciarselo?, pensavo. In fondo Nora è ancora un gran bell’esemplare, quando è arrivata in questo paese voleva fare la modella, era giovane e saporita, ma non è alta abbastanza e ha troppe tette e un culo eccessivamente generoso, non l'avrebbero mai presa come modella, forse un film porno, ma non ne ha mai neppure voluto sentirne parlare.

d'altro canto però, nessun uomo si lascerebbe intimidire da un culo generoso. Figuriamoci il ciccione bavoso. Scommetto che quello lì non fraternizza con suo uccello da secoli. Si potrebbero alzare dei begli extra da un servizio del genere. Le parlerò, ma devo trovare il momento giusto e le parole adatte, un’opera di persuasione delicata, da maestri di retorica, così mentre mi verso il caffè faccio un appunto sulla parete della cucina, tanto per tenerlo a mente:

4)sbocco lavorativo.

C’è un piccolo elenco di buoni propositi lì sulla parete, a ricoprire ritagli di carta da parati ammuffita.

1)Fare un giro nella cantina condominiale (recuperare qualche straccio o qualche sedia abbandonata)

2) Passare dall’interno 16 e 17 (ultimi appartamenti non ancora questuati);

3) Fare un salto a Sant'Egidio (cassetta delle offerte).

Verso il caffè nella stessa tazza in cui Nora mi aveva versato il suo; volontariamente e quasi per ripicca vado oltre l’alone di grigio che segna la misura della sua avidità.

Cazzo, un uomo avrà pure diritto a qualcosa in più che tre sole dita di caffè!

Due zollette fanno glù nel fondo del liquido fumante, ne metto una terza, mi piacciono le dolcezze pur non essendo un tipo romantico. Do una prima girata con l’indice flesso mentre dalla tv del vicino le estrazioni del lotto stanno per avere inizio. Mi ciuccio il dito di riflesso e in tutta fretta vado in cerca della schedina che il giorno prima ho sapientemente compilato e invalidato con gli ultimi spiccioli che avevo in tasca. Non sono un gran giocatore, in genere non baratto una birra e delle sigarette per uno stupido gioco di sorte, ma quella notte, la notte precedente Nora aveva fatto quel sogno. Aveva sognato una nonna morta o qualcosa del genere che le appariva minacciosa e l’avvertiva che nella sua bara erano entrate delle serpi e una gran quantità di sterco e che proprio per questo non le era più consentito di riposare in pace e che qualcuno sarebbe dovuto intervenire perché lei potesse continuare a marcire in tutta comodità. Lei si era svegliata tutta trafelata, in uno stato di grande agitazione, urlava, diceva che qualcosa di terribile sarebbe accaduto e poi aveva cominciato a piangere e scalpitare perché i morti, diceva, non si scomodano per niente. Così al mattino, mentre vagabondavo accattonando sigarette ho giocato l’8 ( la vecchia) il 13 ( la bara) il 57 ( le serpi) e il 22 ( la merda).

Non si sa mai, meglio non sottovalutare la saggezza popolare cilena.

Mi sono anche dato una gran bella grattata ai coglioni, ma d’altro canto, cosa può accaderci di più terribile di ciò che stiamo già vivendo? comunque, appunto, non si sa mai. Perciò mi catapulto nella camera da letto, a momenti non rovescio il caffè, cerco tra le lenzuola, tra i panni lerci, poi il lampo di genio, guardo nelle tasche dei pantaloni, li trovo appallottolati ai piedi del letto e come per incanto ecco la schedina, il piccolo pezzo di carta in cui i numeretti dall’oltremondo sono venuti a coagularsi. Intanto il vecchio alza il volume, dev’essere che anche lui ha giocato pesante, la vocetta-valletta si schiarisce e comincia l’estrazione. I primi numeri non mi riguardano, sono ruote su cui non ho puntato, così si chiamano, ruote, forse perché uno ci va a ruota, col gioco, intendo. Ad ogni modo torno al mio caffè che rischia ancora una volta di raffreddarsi, riesco a prenderlo appena in tempo. Mi siedo comodo e con un orecchio alla parete faccio il primo sorso. Ah! Che goduria! Non c’è soddisfazione maggiore che prepararsi un caffè su misura, l’esatta quantità d’acqua che ci piace, la dose di zucchero che più ci è congeniale, il giusto tempo di attesa e di riposo perché il caffè faccia il suo porco mestiere da caffè, il perfetto livello del liquido nella tazza e la temperatura giusta, né bollente ma neppure semifreddo, il giusto. Nessuno saprà mai farti un caffè tanto buono quanto quello che prepari per te stesso. È un po' come farsi una sega. La stessa esatta differenza che c’è tra farla e farsela fare.

8, dice la vocetta. Ce l’ho.

Faccio un altro sorsetto, giusto per bagnarmi le labbra.

13. Ce l’ho.

Mi spalmo contro la parete.

22. Cazzo, c’ho pure questo.

Un pizzicore interno comincia a gravare faticosamente sulla mia capacità di mantenere la calma. È come se mi prudesse il fegato e non sapessi come grattarmi. Noto che la tazza mi trema epilettica tra le mani. Un moto incontenibile dalle viscere mi obbliga ad alzarmi, ma non devo farlo, rischierei di far rumore e fottermi il resto dell'estrazione. Mi infliggo una di quelle punizione che neppure in collegio avevo sofferto in modo così patetico. Vorrei tanto una sigaretta e nonostante il freddo mi accorgo di grondare sudore. Faccio l’ultimo sorso di caffè, tenendo il liquido intrappolato tra il palato e la lingua per evitare che ingoiando il singulto mi faccia perdere la concentrazione.

57. ce l’ho.

Oddio, ce l’ho, il 57 ce l’ho, ho vinto, lo guardo un’ultima volta, 57, stampato sulla schedina, ho vinto, cazzo ho vinto, sono ricco, mentre una intensa lubrificazione oculare ne sfoca i contorni, è lui, sono ricco, è proprio il 57.

Cado a terra ruzzolando sulla schiena, sto per lanciare un urlo disumano, il più triviale, interno, cavernoso boato che razza umana abbia mai emesso, ma improvvisamente mi accorgo che dalle mie corde vocali l’impeto del guerriero fa fatica a venir fuori. È come se qualcosa mi impedisse di parlare, di ingoiare, di respirare. Mi tiro su, forse in posizione eretta il colpo di tosse che mi abortisce nella gola riuscirà a venir fuori.

Macchè.

Poggio il palmo della mano contro la parete ammuffita, mi guardo attorno per richiamare alla mente la familiarità dell’ambiente. Ok, lì c’è la cucina, là la camera da letto, ai mie piedi la tazza rovesciata.

Il caffè mi è andato di traverso, ma basterà un bicchier d’acqua, un sorso d’acqua fresca e questa fottuta sbrebba andrà giù. Ne sono convinto. Ho vinto, la morta nel sogno di Nora ci ha reso ricchi, cambieremo casa e città, riavremo il nostro bambino.. Ma più passi faccio verso il lavandino, più in viso al color pallido esangue va confondendosi il livore del soffocamento.

Non riesco a tossire, non ce la faccio, osservo il palmo delle mani, eppure loro sembrano normali, ci vuole un po’ d’aria, forse. Guardo la finestra, meglio aria che acqua, la distanza è minore, devo sbrigarmi perché sento che dall’interno del mio corpo qualcosa sta per implodere.

Il torace è immobile.

Spalanco gli stipiti e caccio la testa verso il basso. Riesco a vedere confusamente un paio di passanti, l’umido negli occhi mi confonde la vista. Le lacrime hanno cominciato a scendere inclementi appiccicandomi le palpebre in un composto denso di colla fisiologica. Si mescolano ai riccioli di bava che dall’angolo destro della bocca mi ungono il mento, scivolando verso il collo, caldi e grumosi, come una falda inesauribile di acqua minerale. Penso che da un momento all’altro il nodo che mi ostruisce la faringe andrà via, sciogliendosi assorbito dalle mille risorse del mio organismo, evaporando, magari o risalendo sotto forma di riverbero acido. Intanto mi accorgo che non respiro più, saranno passati due minuti o forse meno, quanto può resistere un uomo in apnea? Beh, mi porto una mano al collo, sembra teso e ripieno d’aria compressa come il corpo di una zampogna. Faccio percorrere alla punta del dito i contorni della vena che dalla spalla si insinua zigzagando su per il collo per scomparire appena appena sotto il cranio, all’altezza dell’orecchio. Sembra un bassorilievo. È turgida e umida come un’esca, come un viscido stupido lombrico di terra.

Mi scappa da ridere.

Mentre soffoco e arranco tra la finestra e l’uscio, mi rendo conto che con ogni probabilità morirò a breve, ma non riesco a trattenere le risate. Una stupida ilarità mi scuote le membra, l’assenza d’ossigenazione deve avere oltre alla morte anche quest’altra controindicazione, l’idiozia; così piuttosto che piangere e disperarmi rido, di me stesso, della mia stupida fine, della mia sfiga, dei soldi che avrei incassato e che avrebbero cambiato la mia vita. Cado a terra senza inciampare, ruzzolo perché le gambe non mi reggono più, sono come burro sotto il peso del mio corpo senza respiro. Batto forte la testa contro lo stipite, avevo quasi raggiunto la porta, ma pazienza, sarà per un’altra volta. La botta è tremenda, il boato dell’impatto risuona eccellente, come amplificato nella cassa di risonanza del vuoto del mio appartamento. Ho sempre avuto un bel cranio, ma non sento dolore, non sento più niente, anche il rumore, anche quello, devo averlo immaginato, perché nelle orecchie ho sciami di api e negli occhi il nero più buio.

Questa è la mia fine, sono arrivato e pensare che ho solo 35 anni, ok, sono pronto, vado, non oppongo resistenza, ma prima di sparire, prima di partire definitivamente faccio un’ultima cosa, un ultimo livido gesto di profonda, tetra infima meschinità: nelle mani la schedina con i numeri vincenti. La distruggo facendola a pezzi, la divido in sei parti e me la caccio nella gola, giù, fino in fondo, più in fondo che posso. Non si sa mai, Nora avrebbe potuto ricomporla incollandone i pezzi con precisione chirurgica, quando si muore è un pò tutto il mondo a morire, perciò è bene che i soldi non incassati vengano con me. Non mi consolerebbe affatto l'idea di Nora felice alla faccia mia.

Vado.

Però, tutto sommato, effetto letale a parte, il caffè non era niente male.